Giovanna mi prese la mano destra. Lo fece d’istinto, non
mi guardava negli occhi, guardava le mie mani torturarsi, tirarsi, scrocchiarsi
nervose. Cos’ era che guidava i miei nervi quella notte lo so solo in parte.
La
giornata era stata quasi statica: autobus in ritardo di pochi minuti, pioggia
leggera da fine ottobre, un profumo forse più intenso di mele fritte dalla
friggitoria all’angolo col mercato di San Lorenzo, prima di entrare in ufficio.
I colleghi erano, come me, persi nel riassestare un lunedì che non prometteva
sorprese noiose, tipo chiusure di bilancio che devono tornare, pagamenti di F24
in cui il codice è un rebus o calcoli di pensione per appena maggiorenni. Si
poteva tranquillamente guardare le foto del fine settimana di amici e
conoscenti sui social network. Magari scrivere anche qualche facezia per far
ridere un po’ tutti.
Il pranzo al bar con il collega filantropo era passato.
Avrei voluto scolarmi un litro di vino rosso e corposo, ma lui ha ordinato
prima di me un’aranciata amara, allora anch’ io mi sono piegato al bon-ton di
una bottiglietta d’acqua naturale temperatura ambiente. Grazie! La minigonna
della responsabile amministrativa nel pomeriggio era salita un po’ più su, ma
niente che facesse drizzare i morti dalle loro bare. Volgare, come la scritta
sconto cinquanta per cento su un vibratore usato una sola volta. Tornando a
casa avevo incrociato gli occhi di troppe passanti. Una volta le donne
camminavano a testa bassa. Dovrei trasferirmi nello Yemen cazzo!
Giovanna non
portava mai la biancheria intima quando era in casa, tranne ovviamente in quei
giorni. Era una geisha timida e fin troppo servile. Se glielo avessi insegnato
io ad essere così, i suoi modi non mi avrebbero dato nessun fastidio. Invece
no, l’avevo trovata già fatta, già formata. Educata da se stessa, diceva lei. Non
sono mai stato capace di crederle.
L’amavo, si credo di si.
L’amavo come si
poteva amare un cane trovato un giorno di pioggia per strada. Vedi quegli occhi
che, anche se sono piccoli come cimici, sembrano palle da biliardo per il senso
di colpa che ti fanno scaturire nell’animo. Alla fine quando ci siamo
conosciuti lei non era molto diversa da un cane abbandonato. Ferita da un
altro, elemosinava amore in quei locali in cui vai o per ubriacarti o per
conoscere qualcuno che non conosci. Lei era astemia. Io mi ubriacavo. Di brutto
anche. Le rovesciai un cuba libre sul vestitino giallo senape, leggero come un
velo. Finimmo a letto a casa mia e quando mi chiese se poteva dormire con me
oramai io russavo già da un pezzo.
Non se ne è più andata. Non dava fastidio.
Cucinava del buon cibo, rispettava i miei turni in bagno e si, la casa era
molto più pulita. Aveva un buon lavoro anche: responsabile del personale in una
catena di alberghi a quattro stelle. Provò anche a raccontarmi di lei, della
sua infanzia, delle sue passioni. Era una brava ragazza.
Quella cosa del
camminare per casa senza intimo però non l’ho mai tollerata. Glielo avevo detto
più volte, ma lei rideva, rideva, pensava nella sua povera testolina che fosse
un gioco erotico. Non ho mai tollerato troppa libertà e sicurezza nelle donne.
Nello Yemen cazzo dovevo nascere! Così, quando Giovanna mi prese la mano
destra, quella notte, io con la sinistra le strinsi il collo. Fu istintivo
anche il mio gesto, non riflettevo, seguivo un’immagine vista più volte in quei
mesi nella mia testa. Poi mi liberai dalla sua carezza premurosa e anche la
mano destra si uncinò al suo collo. I suoi occhi erano un lago di acqua e in un
minuto o poco più, divennero una palude stagnante, svuotata dai pesci, gli
anfibi, le alghe e i sassi. Cadde a terra e,nello schiantarsi sul pavimento, il
vestito color nocciola che aveva addosso si sollevò fino alle anche ossute.
Nuda. Completamente nuda.
Neanche da morta mi portava decenza.
Maruska Nesti
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