sabato 22 marzo 2014

Una risata ci disseppelirà - Yue Minjun


“La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza.”

Questo è solo uno dei motti di Mao Tse Tung negli anni della sua Rivoluzione Culturale in Cina. Anni 1950-1970 per intenderci. Libretto Rosso per intenderci. Usare il popolo per combattere guerre interne al partito anche, ma questo è un altro discorso, adatto agli appassionati di storia.



Chissà quanto questa e altre direttive ideologiche hanno poi influenzato Yue Minjun e le sue opere. A mio parere, a parere di tutti, perfino dell'artista, ne sono la matrice basilare. Noi occidentali, delle idee del maoismo ne abbiamo poi fatto piccoli fuochi fatui di pensiero nel 1968.

Yue Minjun, nato nel 1962 proprio nei favilli propagandistici di Mao, ormai è conosciuto in tutto il mondo per le sue opere che rappresentano questo o questi volti sorridenti all’estremo.
Nel suo caso si può sostituire la parola rivoluzione con la parola risata.
Proviamo.




“La risata non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la risata è un atto di violenza.”










Si violenza. Ed è divenuta sempre più espressione di violenza nella maturazione della sua ricerca artistica dagli anni ’80 (in cui i soggetti rappresentati erano amici sempre sorridenti rappresentati in modo realista, con un’indole al fumettistico che va collegata ai manifesti propagandistici di quel periodo in Cina), agli anni ’90 ( quando inizia ad usare come unico soggetto il suo autoritratto conservando il realismo delle forme e dei colori), proseguendo poi il suo lavoro deformando i rapporti col reale: bocche enormi e spalancate, denti sovrastimati, occhi chiusi, strizzati, cambia il colore della pelle che diviene ancora più reale. 


Gli ultimissimi lavori del 2012 ripropongono sempre il suo ritratto, ma deturpato alla Bacon.

Dietro la sua opera unica e facilmente identificabile si può ritrovare la tradizione artistica cinese, con la sprezzante natura orientale, ma si può notare anche un’influenza magrittiana ed europea.


Yue Minjun spiega così la sua scelta del sorriso: “Per la cultura cinese sorridere è segno di gentilezza e d’accoglienza, in Cina c’è una lunga tradizione del sorriso. C’è il Maitreya Buddha che predice il futuro e la cui espressione è il sorriso. Normalmente si dice che si deve essere ottimisti e sorridere alla realtà . Durante il periodo della Rivoluzione Culturale c’erano dipinti sullo stile dei poster sovietici che mostravano persone sorridenti, ma ciò che è interessante è che ciò che si vedeva in queste immagini era quasi sempre l’opposto della realtà”.





Ed ecco che lui ne crea una parodia, ironizzando su se stessi e sui processi di massificazione, l'omologazione forzosa di idee, gusti e opinioni in tutti i campi intellettivi, pratici , di stile di vita insomma. Mettendo in scena il proprio volto, maschera di ognuno, ci fa riflettere su quanto è importante conservare la nostra individualità e la nostra libertà di pensiero ed espressione.


Vorrei concludere con alcuni aforismi perché spesso la parola accostata all’arte figurativa aiuta una riflessione più profonda e più caleidoscopica.


Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo. Come chi ha il coraggio di morire - G. Leopardi

Si conosce un uomo dal modo in cui ride - F. Dostoevkij

Il riso è il profumo della vita in un popolo civile - A. Palazzeschi

Credo che il ridere sia il vero segno della libertà R. Claire

Fate attenzione agli uomini che non ridono, sono pericolosi - Giulio Cesare

In nessun caso è tanto facile essere indotti al riso come quando si è tristiCartesio



 E soprattutto nel caso di Yue Minjun  trovo le parole di W. Goethe molto appropriate:

Nulla rileva meglio il carattere degli uomini di ciò che essi trovano ridicolo.



 Maruska Nesti




lunedì 3 marzo 2014

Louis Bougeois – Autoanalisi Lucida




In una bella intervista rilasciata qualche tempo fa a Christiane Meyer-Thoss, Louise Bourgeois, scultrice, nata a Parigi nel 1911, ma residente a New York dal 1938, invitata a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia di quest’anno, ha dichiarato: 
La storia della mia carriera è stata questa. Per molti anni, fortunatamente, i miei lavori non si sono venduti né per profitto né per altre ragioni. Io ero molto produttiva, perché nessuno cercava di copiare il mio alfabeto. Ne avevano sentito parlare, perché nel corso degli anni qualche mostra l’avevo fatta, ma non avevo venduto. E in America vendere equivale a avere successo. La mia immagine è rimasta tutta mia e di questo sono molto riconoscente. Ho lavorato in pace per quarant’anni. La produzione del mio lavoro non ha avuto niente a che vedere con la sua vendita. Su di me il mercato continua a non avere alcun effetto, né in positivo né in negativo”.


Prolifica, solitaria, controcorrente, in tutti questi anni Bourgeois ha tenacemente fatto della sua ricerca artistica il luogo dichiarato di una lucida autoanalisi. Convinta della necessità di non rimuovere, di non distrarsi da sé e dell’utilità, ancor meglio dell’inevitabilità, di fare i conti con il proprio passato, con i fantasmi dell’infanzia e della vicenda familiare oltre che con le tracce da essi inscritte nel corpo, l’artista ha scelto la scultura come mezzo di anamnesi e insieme di espressione. 

Indifferente alle mode culturali e alle tendenze artistiche che hanno via via dominato il nostro secolo, eppure di esse assai avvertita, ha perseguito una sua strada che solo verso la fine degli anni settanta ha incrociato il gusto e le nuove direttive del mercato dell’arte. È così che, a settant’anni compiuti e senza mai essersi allontanata da una sua privata e rigorosa linea di ricerca, Louise Bourgeois si è trovata a rappresentare al livello più alto tanto il discorso estetico oggi prevalente quanto i nuovi umori politici e sociali.*






La descrizione sopra, e le dichiarazioni delle sue interviste, ci restituisco perfettamente la visione di quest'artista che ha fatto di tutta la sua creazione l'analisi della sua vita, della sua memoria. 

Quello che più mi sorprende è come, nonostante la conoscenza del mondo artistico che poteva circondarla in quegli anni, continua a perseguire la propria via senza sentire la necessità di invertire o modificare i propri mezzi. Credo però che possiamo cogliere il suo profondo e radicato concetto, in un suo intervento degli anni novanta, dove asserisce con durezza l'impossibilità di insegnare a diventare artisti, 

“...Come lo si può insegnare?...Si può solo accettare o rifiutare questo dono. Non è un mio potere, né è mia responsabilità, o tanto meno mia intenzione, perseguire l'impossibile obiettivo di insegnare a qualcuno a diventare artista”.
Un dono. Ecco come definisce la sua potenza nel creare.
Si può insegnare la tecnica, far fare molta pratica, condurre qualcuno ad avere perfino una grande produzione, perché solo “l'opera può insegnare qualcosa, non l'artista. Un buon numero di artisti sono molto stupidi, sa” (in risposta ad una domanda di Francesco Bonami).

“...E' come provare ad aprire una porta con la chiave sbagliata. Non c'è niente che non vada nella chiave e tanto meno nella porta. Ci sono domande cui è troppo doloroso rispondere. E altre ancora cui è impossibile rispondere”.

Rafael Vindigni

Fonti
* Maria Nadotti, Prove d’ascolto. Incontri e visioni, Edizioni dell’asino, Roma 2011
Artribune, anno IV, numero 17, 2014