mercoledì 12 dicembre 2012

Chiara Tocci: urlare sottovoce.


“ Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e filtri giusti. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea “.



Queste sono le parole di Tiziano Terzani a riguardo della fotografia. La fotografia deve essere documento contemporaneo, deve contenere un messaggio, un momento che non si ripeterà più nella storia non deve e non può essere solo ricerca stilistica. 


Le fotografie della serie Life After Zog and Other Stories racchiudono in sè una ricerca stilistica armoniosa ed elegante oltre ad essere un’importante documento dell’era contemporanea. Chiara Tocci, giovane fotografa di origini pugliesi e neo mamma si è fatta la giusta domanda ed è riuscita a formulare una serie di risposte tradotte in immagini che ci permettono di entare nel quotidiano delle vite di moltissimi al Nord dellAlbania. La serie After Zog nasce dalla curiosità di capire il perchè ad inizio anni novanta un massiccio flusso di Albanesi lascia la propria terra e le proprie origini scappando da un futuro senza speranza verso qualcosa di altrettanto incerto. E proprio in quel frangente che la Tocci si è fatta la giusta domanda : “ Cosa e chi lascia dietro di sè questa gente disillusa e triste…? “

La risposta si è tradotta in un progetto in continua evoluzione che racconta di storie personali, di politica, di cultura e di limiti geografici. Storie affascinanti raccontate con eleganza e attenzione. Uno sguardo educato e mai fuori luogo che permette di vivere i colori e le vite di molti aldilà del mare. La Tocci riesce a raccontare in maniera estremamente dettagliata la solitudine, I limiti culturali e ambientali. Il suo sguardo si posa sui volti e sui dettagli in maniera attenta senza tralasciare nulla. Vincitrice dell’importante Premio Pesaresi nel 2010 questa serie è in continua evoluzione e si arricchisce di volta in volta di nuove potenti immagini. Immagini che sanno raccontare, spiegare, urlare sottovoce.


Francesco Gallo

giovedì 6 dicembre 2012

Gala e Dalì: di quei due.



Le biografie degli artisti, ma anche quelle dei personaggi storici, mi hanno sempre affascinata. 

In particolare l'Artista mi incuriosisce: ai personaggi storici gli si deve o il coraggio o l'errore d'azione, volendo semplificare, mentre l'artista ( pittore, fotografo o scrittore che sia)  ci dona la visione di un mondo, mondo comune che passa dai suoi occhi e si trasforma, e per  comprenderlo è necessario ricercare la fonte delle sue ispirazioni generali e particolari. 
Non so qualcosa tipo un movimento ideologico, una particolare congettura storica, la storia della sua famiglia, l'accettazione dei genitori, la derisione dei genitori, il discredito alla presentazione delle sue prime opere, alcune amicizie sbagliate, l'alcool, la paura della morte o delle malattie, la follia,l'idea innovativa, l' amore.



Di Salvador Dalì, della sua pittorica surreale sappiamo molto, ma molto di quello che lui ha fatto è stato condotto in tandem con sua moglie Gala.
Gala è il soprannome che le ha dato il suo primo marito, Paul Eluard, poeta francese tra i fondatori del Surrealismo, conosciuto in un sanatorio francese e da cui ebbe una figlia. Da quelle poche informazioni che si possono recuperare sul suo primo matrimonio possiamo dire che ogni tanto Eluard andava in crisi e se ne partiva, magari con un peschereccio per qualche mese, poi tornava sempre da lei, comunque. Ma Gala, Elena all'anagrafe russa, donna benestante e di buon gusto, che fu anche mecenate di molti artisti, frequentava il gruppo dei surrealisti e per molti di loro fu modella e ispiratrice. Molti surrealisti tra cui Breton e Man Ray poi la trattarono con disprezzo ritenendola un'opportunista.


Un giorno del 1929 Eluard, Gala, il regista Bunuel e altri amici partirono per la Catalogna, per fare visita ad un Salvador Dalì venticinquenne. Chi può dire cosa si dissero con le parole, gli sguardi e i corpi quella prima volta Gala e Dalì, fatto sta che lei lasciò a Parigi Eluard e la figlioletta e si trasferì da lui, sposandolo nel 1932.





Lei aveva undici anni più di lui e nelle prime foto che li ritraggono insieme 
questo salta all'occhio. 
Lui ha sempre detto che lei lo ha salvato dalla morte. I maligni invece sostengono che Gala fosse più madre e mecenate che moglie di lui.


Ma i fatti smentiscono perchè la loro è stata una folle passione, un incendio mai spento e molto perverso. Entrambi avevano storie extra-coniugali o relazioni a tre, la più famosa forse quella con Amanda Lear, lui adorava guardarla mentre faceva l'amore con altri uomini, lui ha avuto una relazione omosessuale con Federico Garcia Lorca, anche se i benpensanti non lo vogliono dire.
Tutto questo se non è sorretto dall'amore non è possibile. Solo una cosa che è mia come la mia pelle può essere donata per essere accarezzata, toccata, sapendo che rimarrà per sempre mia.





Dalì le ha donato il palcoscenico in molti suoi quadri. Il volto e il corpo di Gala sono quelli che ritroviamo in Galatea delle sfere, Madonna di Port Ligat, Dalí nudo in contemplazione davanti a cinque corpi regolari metarmorfizzati in corpuscoli, nei quali appare improvvisamente Leda di Leonardo cromosomatizzata nel viso di Gala, Galarina, e poi ci sono le loro fotografie che parlano di un uomo e una donna uniti finche morte non li separò.
























Maruska Nesti

mercoledì 7 novembre 2012

Francesca Woodman: quello che le foto non dicono



"Ho dei parametri e a questo punto la mia vita è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza di caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate". Sono i pensieri spassionati di una giovane donna, così "artista" - sensibile, profonda, irrequieta - da non riuscire a convivere con l'intensità dell'esistenza. Sto parlando di Francesca Woodman (1958-1981) che a soli 22 anni si tolse la vita buttandosi da un grattacielo di New York. Figlia di artisti americani, cresciuta in una casa con vista su Santa Maria Novella a Firenze, ma con un frequente "va' e vieni" dall'America, la Woodman racchiude il suo complesso mondo interiore nelle fotografie, tutte rigorosamente in bianco e nero. Nel 1975 si iscrive alla "Rhode Island school of design" ma il periodo di studio che trascorre a Roma - maggio 1977/agosto 1978 - è il momento più magico e formativo.
Protagonisti delle sue immagini, lei e il corpo: quasi sempre nudo, forse simbolo dell'impotenza davanti all'aggressività della vita. Si spalma contro pareti spoglie e rovinate dal tempo, si nasconde dietro gli oggetti o diventa un tutt'uno con essi; si specchia e si confonde col proprio riflesso, viene bloccato dallo scatto della macchina fotografica proprio quando sta per allontanarsi. E resta solo un timido riflesso di una presenza angelica. Un corpo fugace quindi, a volte seminascosto da un velo o in parte celato da un abito, che nel momento stesso in cui appare si sfuma, perde consistenza e diventa un'ombra confusa. 

Francesca Woodman, che a 23 anni aveva paura di invecchiare e temeva la solitudine, riusciva a creare ritratti perfetti delle sue paure e, inquadrandoli, li rendeva immortali, alla portata di tutti. E per sempre. Ma le sue opere non sono tragiche, anche perché formalmente troppo eleganti; sono, semmai, magnetiche e oscure al tempo stesso perché suggeriscono verità incomplete, accennano a emozioni che si possono soltanto percepire e mai comprendere fino in fondo. "Ti ecciterai, caro amico, osservando un'immagine, ma non saprai mai che cosa vi è dentro" scriveva la giovane artista, regalando la più acuta presa di coscienza sull'universo che si nasconde nella fotografia. Ma dove dobbiamo ricercare, allora, il senso del suo suicidio? Non nel
malessere giovanile, né nelle crisi creative e neppure in una presunta instabilità mentale. La Woodman è sempre stata lucidissima e intellettualmente assai precoce. Si tratta, quindi, di un gesto tangibile che pone fine alla sua ricerca. Folgorata dal mal di vivere, decide che è meglio preservare la commovente delicatezza (interiore, artistica) degli anni vissuti e non rischiare di sporcarla. Una scelta opinabile, ma pur sempre una scelta.
Michela Silla
[IMG. F.Woodman]

domenica 28 ottobre 2012

Le donne si amano a vent’anni




Sui margini degli argini di un torrente, le bambine camminano come lucertole.
Hanno imparato ad amare il sole, ad andare lente e capire i movimenti circostanti dai rumori che l’erba suona. Sanno riconoscere il fruscio del vento tra il rosmarino selvatico e la pancia della biscia  uscita dall’acqua, che struscia tra terra e cielo per preparare l’agguato.

Le bambine sanno che non si devono fermare. Se si fermano il mondo impazzirà di dolore.

Un giorno hanno visto un cipresso. Era alto e scuro come un generale nazista. Presenziava e non viveva. Non hanno avuto paura, ma pena nel guardarlo. Era spoglio nella parte bassa. Lo avevano ripulito dei rami irregolari della nascita per renderlo pennello perfetto per un paesaggio.
Un paesaggio distorto da un poeta impazzito.

E le lucertole continuano a camminare lente e vedono le pannocchie del mais diventare gialle. Le vedono mentre vengono colte, ma non sanno delle bocche che le ingurgiteranno né degli stomaci che le digeriranno. Le lucertole non sanno niente. Loro vedono i colori. Loro vedono le cose del mondo cambiare forma, dimensione e toni. Non sanno se le pannocchie marciranno in un fienile o in una pubblica piazza, non sanno se verrano trasformate in snack o olio per motori. 
Non sanno.

E’ per questo che le lucertole e le bambine non si devono fermare perché sennò il mondo impazzirebbe.

Una mattina, una lucertola bambina incontrò una lucertola bambino e il loro fu un incontro scontrato o uno scontro incontrato, perché entrambi avevano solo visto la metà precedente del loro camminare. Il margine dell’argine del torrente era lo stesso, ma c’è chi va dalla foce alla sorgente e chi dalla sorgente alla foce. Con allegria. Con spensieratezza, incoscienza.  C’è chi ci mette troppa coscienza.
Gli occhi che vedono sono i miei, i sensi acutizzati su stimoli diversi li sento io, non tu. C’è chi viene dal verde rigoglioso bagnato dei tramonti su acque aperte e va verso un’aridità di zolle frantumate e chi dalle zolle frantumate parte verso ridenti paesaggi immaginari, ma sempre più concreti via via che le zampe ti portano avanti.

Le lucertole, i bambini e le bambine non possono fermarsi. Se loro non vedono, nessuno vedrà e il mondo in un secondo impazzirà. E’ già successo. No?



A mezzogiorno le due lucertole che provavano a scansarsi e guadagnare il terreno preceduto dall’altro, compresero  che non avrebbero risolto niente: quel twist, quell’ attorcigliare di movimenti di gentilezza e sarcasmo non si dileguava e allora si baciarono. Si baciarono come si baciano gli adulti innamorati. Il tramonto arrivò in un soffio, l’alba in uno zefiro, poi fu di nuovo mezzogiorno e le lucertoline ancora si baciavano. Arrivo la tramontana di un altro tramonto e il levante di un’altra alba e loro erano ancora ferme nelle loro bocche che cercavano di capire perché due esseri viventi distinti erano divenuti un essere solo. Perché entrambe erano divenute solo bocca.
La pioggia un pomeriggio iniziò a cadere lieve e le scintille di luce impregnarono le squame dei loro corpi. 
I pensieri ovattati dal corpo si sprigionarono in parole.
Io voglio vedere la foce.
Io voglio vedere la sorgente.
Il vento le spostò e il cammino riprese . Era cambiata la grafia. La penna poggiava diversa sul foglio. Le effe erano più marcate, le a più arrotondate. I passi delle lucertole divennero più cauti. La paura più intrinseca, pregnante.
Un sole digrignante nella sua austerità portò sollievo al sangue freddo delle arterie, gli impedì di morire a pancia all’aria sul greto di un torrente divenuto rigagnolo.
I gatti miagolarono per mesi, le anatre starnazzarono solo di notte. Io e te già vivevamo vite divise.
Le lucertole camminavano.

Le lucertole, le bambine e i bambini non andrebbero mai fermati, questa terra imploderebbe.

Le due lucertoline che per due giorni si baciarono non si rincontrarono mai, ma entrambe videro la loro meta, foce o sorgente che fosse. Non la videro con gli occhi che la nascita gli aveva dato. Occhi individuali di individuo. 
La videro come un ritorno all’origine.

Se in questa favola c'è un senso o una morale, ebbene  non dobbiamo mai soffocare  le risa e le grida di chi non ha paura. Soprattutto se siamo noi.
Le donne si amano a vent’anni. 
Le lucertole per sempre.





Maruska Nesti
Img: Roberto Kusterle

lunedì 8 ottobre 2012

William Kentridge – Drawing for Projection




Sudafricano,  classe 1955, artista poliedrico che spazia da regista teatrale, filmmaker, disegnatore, pittore, scultore. Senz’altro può essere annoverato tra le figure di spicco della scena artistica contemporanea,  pur non avendo apportato nessuna novità stilistica con i suoi lavori, ma utilizzando e riunendo insieme diverse vecchie tecniche, come lo stop-motion e il disegno animato, rendono unica la sua opera, proprio perché diventano un’ottimo strumento che ci permette di esplorare la nostra memoria e la nostra storia.



Le immagini utilizzate da Kentridge, e tracciate con abili segni di carboncino, sono decisamente di aspetto rudimentale, ma si ricollegano l’una a l’altra formando nuove visioni che riconducono a certe realizzazioni  surreali sulla scia di Magritte. Il montaggio dell’insieme dei video, riprende invece gli aspetti del cinema delle origini, come alcuni film di Georges Méliès. I suoi video sono ripresi tratto dopo tratto, lasciando inalterato il foglio su cui lavora, anche dopo diverse cancellature fino a quando lo spazio bianco  non diventa saturo di grafite e sfumature. Infatti rispetto all’animazione classica, Kentridge utilizza pochissimi fogli, ma apportando sopra, con l’uso del carboncino e cancellature, tutte le sequenze necessarie a realizzare questi video, definiti dall’artista “Drawing for Projection”. Tutti film non parlati ma accompagnati da raffinate musiche, spesso riprese da canti popolari sudafricani.La maggior parte dei video di Kentridge narrano la vita di due personaggi principali, protagonisti di quasi tutta la sua opera: Soho Eckstein, uomo d’affari avido e senza nessuno scrupolo, grande,  grosso e in genere con un vestito gessato, padrone di un impero edilizio, e Felix Teitlebaum, dall’animo decisamente romantico e solitamente ritratto nudo ed assorto nei suoi pensieri. 
Nel video che vi proponiamo, invece, vediamo come è Soho ad essere solitario e pensieroso. Notiamo come, penetrando con TAC e raggi X il suo cervello, prendono vita tutte le sue atrocità commesse in passato , conducendolo  lentamente ad una nuova azione introspettiva. 



                                                                                                               R. Vindigni
                                                                                                                                                                                                                            Bibliografia: William Kentridge a cura di F. Bonami




lunedì 24 settembre 2012

Loretta Lux - Il simulacro della Fantasia








La verità è un concetto troppo complesso per essere restituito con semplicità e comunque non interessa la fotografa di Dresda Loretta Lux classe 1969, che ha lasciato il caos della pittura per la pulizia della fotografia, ma per questa continua ad utilizzare l’organizzazione pittorica, le geometrie, i colori e la sensazione di sottile alterazione che caratterizzano il linguaggio pittorico.


 Il suo stile fotografico è surreale, nella misura in cui immortala bambini somaticamente perfetti, li scontorna ed inserisce in sfondi fotografici o pittorici preparati con cura, talvolta ne altera le proporzioni di qualche pixel e, il risultato è una galleria di ritratti immaginari, iconici simulacri di una fantasia che ha idealizzato l’infanzia come un paradiso perduto nel quale è impossibile tornare, un regno edificato sulle proiezioni estetiche dei nostri desideri.




Francesco Gallo 



lunedì 10 settembre 2012

"L'arte per l'arte": asta benefica.



Cari amici,

è con piacere che vi segnaliamo un'iniziativa del Collettivo Artistico Culturale "Non cresco più". 

E' iniziata infatti l'asta benefica “L'arte per l'arte”, a favore dei terremotati dell'Emilia Romagna: artisti di Scalvaia, Monticiano e Ferrara hanno gentilmente donato ciascuno un'opera che può essere
visionata  in questo sito.

Gli interessati potranno presentare le loro offerte esclusivamente tramite e-mail entro il 30 settembre all'indirizzo: noncresco@gmail.com. 
Il ricavato andrà interamente versato a beneficio della ristrutturazione del Teatro Comunale di Ferrara, prestigioso luogo di cultura e arte pesantemente danneggiato dal sisma.

Date per cortesia massima diffusione a questa iniziativa attraverso la
vostra mailing list, Facebook, segnali di fumo e comizi in piazza.

Vi ringraziamo per l'attenzione e per il coinvolgimento.


Img: "Where is the end?" - M. Durelli (una delle opere in asta)





martedì 28 agosto 2012

Testarda





Sembra proprio che questa notte dovrò dormire da sola.  
La mia camera è impraticabile. L’ondata di rabbia delle tre del pomeriggio ha lasciato il letto inutilizzabile. Centinaia di foto ridotte a brandelli ricoprono lenzuola e cuscino e il sollievo non è stato poi così dirompente come speravo. Adesso sono lì, giacciono nella calura d’agosto come pezzi di un puzzle che neanche volendo si può ricostruire, ci vorrebbero mesi e ci sono così tante altre cose da fare. Di buttare via tutto per ora non mi viene voglia, alla fine è uno spettacolo così affascinante, una riproduzione concreta del mio cuore. 

L’aperitivo con Sandra è andato come doveva andare. Tre ore a parlare dei progetti futuri e ogni tanto mi veniva da ridere pensando che ancora siamo qui a progettare cambiamenti epocali e siamo già giunte alla soglia dei quaranta. Specchi inversi delle nostre provinciali madri.

Due mesi fa, dei ladri hanno svaligiato la villetta adiacente alla nostra. 
Mio fratello, suggestionabile e pavido com’è, ha contattato subito un’allarmista e dopo sei giorni avevamo un rumorosissimo impianto d’allarme che ci avrebbe protetto da questa sventura. “Soprattutto tu, sorellina, dovresti essere più al sicuro, non credo che ti lascerebbero dormire, voi donne siete sempre troppo indifese.” Bè se lo dice lui!  Non che abbia torto, ma io odio cambiare le mie abitudini. Un giro di chiavi e via, poteva bastare e poi buona fortuna!

Mio fratello è partito finalmente per un paio di giorni. Sono sola e infatti ho potuto tenere lo stereo acceso al massimo, ho fatto la doccia con la porta aperta, ho stracciato pezzi di passato, ho pianto forte dopo giorni di pianto sommesso e soprattutto ho mangiato quando avevo fame, che con lui non è possibile, perché “nella vita ci sono riti che hanno un orario preciso”. Immagino che con la sua ragazza scopi solo quando vanno a letto per dormire, mai al mattino.  Sono strani i riti.


Sono le due di notte e dalla finestra del salotto entrano sottili fili di vento ancora troppo caldo. Sto sdraiata nuda sul divano, anche dormire nuda è una cosa che non faccio più da troppo tempo. L’allarme non l’ho attivato, io non le cambio le mie abitudini. La televisione chiacchiera di fronte a me e il sonno scende a spengere il frullio inquieto della mente.  Mi risveglio che è ancora notte. Prendo il telefono le quattro e dodici, nessun messaggio, nessuna chiamata persa.  Ho voglia di fare l’amore. Cos’è che ho sognato che mi ha lasciato così l’ho già dimenticato. Stringo le gambe per non sentire la voglia. Poi mi alzo bevo un po’ d’acqua e sì, c’è un’altra cosa che non faccio da tanto tempo: masturbarmi. Non che mi sia mai piaciuto tanto farlo, ma credo che non potrei riaddormentarmi. Il divano è troppo caldo. Una volta lo facevo in bagno. Mi alzo e mi dirigo verso il bagno. Accendo la luce, mi guardo allo specchio accarezzandomi dal collo al pube. Come sono diverse le mie mani dalle sue. Cado a terra con i suoi occhi che sembrano lì a dieci centimetri da me. Li riapro mentre continuo ad accarezzarmi e vedo i trucchi e le confezioni di detersivo poggiate sulla lavatrice. Gli sportelli del mobiletto discosti. Mi alzo. Ecco cosa non mi piace della masturbazione, ha il potere di farmi sentire stupida e debole e sola. Lasciamo perdere, non sono proprio capace. 
Torno sul divano, spengo la luce e chiudo gli occhi. Ma io non ho lasciato il bagno in quel modo, i trucchi e i detersivi cosa ci fanno sulla lavatrice?
Mi alzo, giro per le sei stanze del primo piano, non c’è nessuno, ma il disordine è ovunque. I vestiti fuori dagli armadi, i cassetti dei comodini aperti. I miei libri spostati. Mi affaccio sulla tromba delle scale e chiedo : “ C’è nessuno?” Piano, poi più forte, poi urlo: “C’è nessuno? E’ brutta testa di cazzo che credi di farmi paura! Dai vieni, stronzo!”.  La luce delle scale viene accesa. Ecco ora ho paura e poi in questa casa nessuna stanza ha le chiavi, l’unica è il bagno grande. Sento i passi, sono pesanti, fanno un rumore sordo. I gradini sono ventiquattro in due rampe, quante volte l’ho contati da piccola. Corro in bagno, mi tremano le mani, chiudo la porta, lui è già arrivato al piano.  Mi appoggio con tutto il peso alla porta, cerco di girare la chiave, ma la chiave non gira. Non vuole saperne di girare. 

Lui abbassa la maniglia ed entra.


Maruska Nesti
Img:  Nobuyoshi Araki - Le donne di Araki


venerdì 13 luglio 2012

L’arte della provocazione


3 figure contemporanee

Non c’è immagine al mondo che scuota gli animi come la conversione di schemi che siamo soliti conoscere, creando quindi un possibile imbarazzo ai fruitori. Se solo pensiamo quanto fragore ha creato la “Morte della Vergine” di Caravaggio, solo perché l'artista ha preso come  modello una prostituta da  poco trovata morta, non dovremmo meravigliarci molto  se artisti del  calibro di Maurizio Cattelan ne hanno fatto il principio regolatore delle sue creazioni. Tra le sue opere più  conosciute, “La Nona Ora”,  una scultura in lattice, cera, tessuto e scarpe in cuoio, che rappresenta il Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. 


Inizialmente la scultura era stata pensata per stare in piedi. Non soddisfatto delle reazioni scatenate dal pubblico Cattelan ha deciso di darle  l’effetto molto più scioccante della posizione sdraiata. Le sue sculture si combinano spesso con la performance, ma nascono principalmente per prendersi beffa delle sensazioni che scaturiscono dai fruitori, come può accadere con una pubblicità in tv.


Ed ecco che scatta indignazione per sculture come l’impiccagione dei tre bambini, oppure assoluto silenzio se ci si trova di fronte a quella sfilza di corpi coperti da un sudario (All). Infine quel ditone medio alzato contro la borsa di Milano (L.O.V.E.).


Il britannico Damien Hirst conosce bene cosa vuol dire provocare e sa come scuotere gli animi anche con installazioni dall’aspetto decisamente semplicistico ma dal profondissimo messaggio che riescono a comunicare, come lo sono gli armadietti cosparsi di un’infinità di medicinali (Pharmacy), pillole dai colori  più svariati posizionati regolarmente sulle scaffalature a specchio, a ricordarci di quante sostanze abbiamo bisogno per essere sempre in vita. 


Tra le sue creazione che hanno creato più scalpore troviamo gli animali sezionati ed immersi in vasche di formaldeide, e quello più conosciuto è lo squalo di 5 metri (The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living). 


Non vogliamo ovviamente tralasciare il Diamond Skull (For the Love of God), un teschio vero, umano, appartenuto ad un uomo del 18° secolo e tutto cosparso di diamanti. Un atto decisamente provocatorio per prendersi gioco della morte e sorridere alla vita.


Se Cattelan e Hirst sono i principali detentori dello scettro della provocazione, non possiamo quindi che eleggere Marina Abramovic regina indiscussa della performance. Nel suo caso la provocazione è dettata da tutto quello che l’artista riesce a fare con il proprio corpo, tentando di raggiungere e superare i limiti stessi della carne. 


Con l'opera “Impoderabilia”, l’artista si pone assieme al compagno Ulay, entrambi nudi, all’ingresso della galleria,  costringendo così i visitatori a “strusciarsi” sui due corpi per accedere allo spazio. L'imponderabilità di quello che accade, costringe lo spettatore a diventare parte attiva dell'azione, contorcendosi tra imbarazzo e divertimento. Per la Biennale di Venezia del 1997, presenta l’opera “Balkan Baroque”, dove si posiziona su un cumulo di ossa di bovino e per otto ore, e attraverso l’uso di una spazzola li ripulisce dalla carne: "Non si lava via il sangue dalle ossa, così come non ci si pulisce dalla vergogna della guerra". 


Tutte le sue azioni pretendono tanto l’intervento del pubblico, che qualche volta ha dovuto fermare la mano dell’artista nelle sue dolorose performance. Inutile riprendere quanti pensano come ultima performance dell’artista la sua stessa morte.



R. Vindigni

lunedì 18 giugno 2012

Dino Valls - Chirurgo dell'anima




















Dino Valls è uno dei rappresentanti di spicco dell’avanguardia figurativa spagnola, classe 1959, laureato in Chirurgia nel 1982. Eppure la professione di medico non lo attrae: stabilitosi a Madrid, decide di dedicarsi alla pittura a tempo pieno. La sua formazione chirurgica però non lo abbandonerà mai del tutto, visto che nei suoi dipinti la fascinazione per gli strumenti di misurazione e dissezione è quasi costante. 


A partire dagli anni ’90, Valls comincia a studiare e ad ispirarsi ai grandi maestri fiamminghi e italiani del ’500 e ’600, in particolare sviluppando una sua tecnica di tempera all'uovo. In questo modo conferisce un sapore classico ai suoi dipinti, che contrasta ma anche sublima il surrealismo dei soggetti. I dipinti di Dino Valls sono crudeli paesaggi della psiche. Creano un ponte diretto fra la tradizione pittorica occidentale, la scienza medica e l’inconscio più nero. 


Tutti i suoi soggetti colpiscono in particolare per lo sguardo: sempre sull’orlo delle lacrime, colmi di una disperazione senza fondo, e sempre fissi sull’osservatore, su di noi, come ad interrogarci e incolparci.


Questi ragazzi e ragazze sono vittime sacrificali di un progresso scientifico che non comprendono, e di cui ci chiedono il motivo; di volta in volta violati, esaminati, misurati, mutilati, denudati, i loro corpi sembrano essere messi incessantemente alla prova. 


I soggetti di Valls sono cavie di un universo simbolico, protagonisti loro malgrado di un enorme e misterioso esperimento. Le sevizie a cui sono sottoposti hanno il sapore della scienza ma l’ambiguità dell’esoterismo. Valls esplora le profondità dell’immaginario componendo quadri complessi densi di simboli e stratificazioni, studiati per lasciarci turbati e inquieti. Dipinti potenti, che espongono la condizione mentale attraverso l’evidenza dei corpi: corpi onirici, capaci di destabilizzare lo sguardo e insinuare terrori e paure quantomai attuali.




Fonte: Bizzarro Bazar

F. Gallo
img Dino Valls