sabato 25 dicembre 2010

Natalizia


L’inverno mi ha infilato la sua mano ghiacciata nel midollo
e tutti i peli che prima si arricciavano come code di porco
sono ora dritti come gli aculei di un porcospino.                  . brizzolato.

Sorge dal danubio – lontano, molto lontano quindi –
il prisma che illumina le feste natalizie:
questo cuore col megafono che urla ad ogni sguardo scrociato.

“Sono ancora ferma là sulla terrazza che affaccia sull’uscita
del Vasco De Gama Commercial Center di Lisboà a guardare
quei volti che mai rincontrerò e che mai ho incontrato e memorizzato
ma volevo vedere, vivere, credere, sentire; senza mai immergermi
troppo nella loro miseria, adombrarmi incoerente nella loro solitudine:
viscida, inerme, sprezzante, candida come neve, pulita come fango.”

Non c’è religione, né matematica, né tecnica artistica, né lingua che tiene:
sto gemendo per le convulsioni di un intestino qualunque.

Inverno vaccante: pascoli di mitologiche unioni familiari.
Abbracci abbraccianti, carezze carezzevoli, tiamo tiamanti
niente spacca il ghiaccio nei tunnel dell’A1.
Milano Bologna Firenze Roma Napoli : stupide solitudini eliciate da debiti individuali.

Scimmie antropomorfe i bambini negli ipermercati,
anaffettive parentesi di compere che saziano coscienze incoscienti – o coscienti -
“mi sporchi le scarpe”  “mangia” “grida””urla”.
Bambino reagisci, l’adulto ti schiaccia, ti rottama, ti strappa, ti ricuce . Male.
Sputagli non nel viso, no, nell’anima.

Gente avvizzita  gongola di fronte ai maccheroni nell’autogrill.

Dove hanno messo il mio posto? Qui? Il mio posto? Qui?

Fosse il cuore di un mulo il mio oggi sarei felice,
avrei scalpitato ghignando tra autovelox e maghrebine accese
 - come stelle, come lampade al led, come cromosomi spasticanti nella nebbia del caso -
avrei  acquistato inutili regali per inutili persone e invece
ho pensato a me.

Ho acceso il megafono del mio cuore.



Maruska Nesti
IMG: Pregnant Woman - D. Hirst

domenica 19 dicembre 2010

Tra alienazione e utopia ecologista

L’INTRO(pro)SPETTIVA DI ROBERTO MERCOLDI

L'analisi della città come luogo e dimensione della vita di chi la vive è il nucleo intorno al quale Roberto Mercoldi costruisce la sua ricerca.  Nella città si imprime il mutare del tempo sotto forma di storie e di architetture; in essa convivono il passato, il presente e il futuro di chi visse, di chi vive e di chi vivrà. E’ una eredità materiale e collettiva che direttamente o indirettamente chiama  tutti i suoi abitanti ad imprimervi un’impronta che verrà tramandata. Questa eredità è in continua trasformazione: ciascuno ne possiede un pezzo, ciascuno la muta  e con ciò trasforma il volto di chi la abita.  La città conferisce ai suoi cittadini un carattere ereditato dalla sua storia, essa è il “Luogo” per antonomasia dove si svolge la vita. Non è un caso che essa in passato vissuta come “madre”, venga oggi sentita dai “nuovi” abitanti come luogo di pericolo ambientale, sociale, individuale. Tutto ciò sta a denunciare  la perpetuazione di una rotta sbagliata. Da questo prende spunto l’Artista: la sua critica si scaglia contro i creatori di mondi che, mossi dall’interesse speculativo figlio di una precisa ideologia, erigono contenitori alienanti senza attinenza con uno spazio abitabile. Roberto vive e lavora a Roma, la sua esperienza si nutre di una bellezza arcadica di un passato oggi monumento, una rammemorazione nostalgica di una vivibilità possibile, accerchiata dalla ectoplasmatica Babilonia dei palazzinari. Ancora sono presenti le suggestioni del periodo razionalista e delle grandi speculazioni edilizie cominciate negli anni sessanta: sperimentazioni di un “passato presente” che non ha dato risultati in termini di vivibilità. Roberto dipinge astrazioni di palazzi post-moderni, luoghi scomodi, sarcofagi contenitori di alienazione. Illumina i bui spazi dei quartieri popolari, massificati,  senza via d’uscita né controllo, dove nasce il prodotto di una sottocultura colpevolmente costruita. Le sue città sono ad alta densità popolare eppure vuote, un chiaro riferimento allo spazio psicologico di chi per condizione abita quegli spazi disumani. Quella di Roberto è la città contemporanea come “idea”: racchiude in se stessa la natura di tutte le grandi metropoli. L’Artista vola sopra la metropoli fantasma, e come il Piranesi, racconta la decadenza di una città consumata, che non c’E’ più eppure continua a consumarsi. E’ la scena apocalittica dell’estinzione dell’uomo che attende un nuovo ripopolamento. La solitudine di architetture essenziali, legate all’idea ancestrale di casa-contenitore, denuncia il contrasto del pieno degli spazi e del vuoto dalla vita. Dalle nude finestre sventolano drappi colorati. Queste entità fluide sono messaggere di speranza e rinviano ad un passato classico rammemorante in rovine le grandi meraviglie create: la bellezza come criterio della vita, e ancora simboleggiano il pensiero e la creatività annunciatori della buona novella. La visione apparentemente malinconica racchiude in realtà una forte reazione ottimistica: la città tornerà a popolarsi solo quando la promessa del rispetto ambientale, dove ambiente sta sia per spazio esterno che interno, sarà mantenuta. Essa è ora vuota grazie al potere demiurgico dell’artista che libera dal disumano gli abitanti, lasciando quei non-luoghi al loro destino. Partendo dalla critica dell’esistente Roberto apre la nuova rotta di una utopica “Città del Sole”, dove per Sole si intende il rapporto con una energia ecologica e rinnovabile, una città ecosostenibile. L’Artista è sensibile alla questione ambientale, disegna un’alternativa fatta di speranze e di idee. Recentemente ha affermato in una intervista: <<l’uomo sarà tale, solo quando si assumerà la responsabilità di un cambiamento di rotta, i mezzi ci sono le circostanze lo esigono, il primo passo per rendere le città sane è quello che punta sulla la tecnologia e rispetta l’ambiente>>. Dunque la sua è una scossa positiva che verte all’assoggettamento della tecnologia non più ad ottiche di mercato ma ad una concreta progettazione di uno stile di vita e di uno spazio vivibile. La sua riflessione assume il nome di “intro(pro)spettiva”: ciò sta a significare l’indagine interiore dell’orizzonte psichico, espressa attraverso la scienza prospettica. La raffinata conoscenza della geometria fornitagli dagli studi in Architettura, non rende la sua opera un mero esercizio di tecnica. La scientificità della composizione non limita le suggestioni della luce che l’Artista rende entità metafisca: essa con una volontà propria costruisce i volumi e ne indaga l’essenza. La sua ricerca verte sull’uomo inserito nello spazio, eppure questo non si vede mai, dunque si tratta di una ricerca di essenze, di presenze metafisiche. 
Va notata anche la sperimentazione cromatica che Roberto effettua sulla tela: le sue architetture divengono composizioni di forme e colori che prescindono dalla dialettica per raggiungere una nuova dimensione estetica che probabilmente sta maturando. Sicuramente sono molte le suggestioni che popolano la sua memoria visiva, ma paragonare l’opera di Roberto Mercoldi a quella di qualche precursore, sarebbe un’operazione artificiosa e inadeguata. Questo giovane artista promettente  ha imboccato una strada nuova: una ricerca personale lanciata verso il futuro.

    
IMG: intro(pro)spettiva N°2
intro(pro)spettiva N°3

lunedì 6 dicembre 2010

Qualcosa di Personale

Mia madre mi ha insegnato che non piange un uomo. Scusa, ti ho delusa di nuovo.
Muoviti, svegliati o ti seppelliranno. Stasera cherosene per non far gelare le dita paffute
è l'unico fuoco acceso, non riscalda, ma incendia i campi. Scusa ho dormito di nuovo.
Perdona lo schiaffo all'uomo, bestemmiava con un braccio rotto in sala d'attesa
mentre una coccarda blu veniva appesa fuori sula porta
mentre il corpo di un uomo morto veniva coperto da un lenzuolo
dentro questo corridoio. Misto cielo ed erba sotto lo stivale di una puttana,
 perdona il misto gracchiante odore di tabacco tra i baffi di un uomo,
sibilante e accorto nei movimenti come una biscia tra le foglie secche
sui lividi della moglie accidentalmente caduta dalle scale, non gli ho creduto.
questo è un  ospedale, questa è una cerniera usata troppe volte
cicatrice sull'addome cicatrice sul cuore, su e giù,
fino a nascondere il collo ad un paio di guanti bianchi in ascensore, parlo poco.
sussurro piano il mio cognome. L'infermiera risponde" stanza numero13".
Gocciolano voglie sul vetro di una macchina, su una padella sporca di grasso,
sul tuo corpo nudo,
sulle lenzuola ancora umide, sul cellofan, sul pollo, sui tasti di un pianoforte.
Aiutami
Sul mio conto in banca, sui ritardi alla stazione, sui telefilm, sui tuoi occhi
marroni. Fermami,
sul divano,  sui pentagrammi, sui fischi allo stadio, sulle nostre canzoni, sui
grattacieli pieni di neve. Ho paura
Sulle cene in scatola ,sullo spazio che il mio braccio disegna mentre giro su me stessa. E' troppo tardi.
"Non oltrepassare, pericolo di morte, di possessione, di smarrimento di infestazione."
Ci sono persone che muovono il cuore da sinistra a destra, lo osservano, lo spostano al centro,
dentro il ginocchio, nella testa, dentro gli occhi e dentro le mani
solo per trovare una faccia, tra le tante, che sia del suo stesso colore, che sia per tutta la vita, amore.
Mia madre mi ha insegnato che non piange un uomo. Scusa, ti ho delusa di nuovo.


Stefania Rubeo

lunedì 29 novembre 2010

Xteriors

Correva l'anno 2007 o giù di lì, quando di fretta come al solito comprai la mia rivista di fotografia preferita: Zoom.
Senza neanche guardare la copertina me la misi sotto il braccio, pagai ed uscii frettolosamente dall'edicola. Solo dopo qualche minuto, ed una sosta al solito tabaccaio, successe. Guardai la copertina della rivista e scoprii che ci si può innamorare di un'immagine. Mi fermai per la strada come inebetito. Davanti quello sguardo fiero e affascinante che occupava l'intero formato della pagina. Di corsa a casa sfogliai a lungo le poche pagine della rivista che trattavano le fotografie di
Desiree Dolron: era una sorta di ipnosi, non riuscivo a staccare gli occhi da quelle immagini. Allora cercai notizie sul web. Un sito scarno ed elegante, una scelta cromatica perfettamente coerente, solo quattro serie fotografiche. Quattro serie di fotografie tutte estremamente differenti tra loro eppure tutte marchiate a fuoco dall' abile mano dell'autrice.

Le immagini della Dolron sono eleganti e raffinate. Solo di una delle quattro serie  voglio parlarvi: XTERIORS.
Una serie di undici immagini. Figure di donne vestite il maniera simile, con lunghi abiti neri e inusuali acconciature si muovono all'interno di uno spazio vuoto e freddo. Forse una grande, vecchia casa della campagna olandese, forse un luogo ai confini del tempo. Le immagini sono alternate ai primi piani di cinque splendide donne dai tratti somatici estremamente differenti. Sono donne senza età, con sguardi fieri e carichi di purezza ultraterrena. La luce in tutte le immagini è davvero bellissima, una luce tiepida e surreale, una composizione classica e un gioco di chiaroscuri che disegna i volumi di viso e abiti come nei migliori quadri della tradizione fiamminga. I colori delle fotografie sono tenui e lividi, con una scelta di gamme cromatiche che esclude quasi totalmente i rossi. I tratti dei volti sono sottilmente modificati in digitale, ciglia e sopracciglia inesistenti, occhi grandi, colli lunghi e sottili, le forme lisce e levigate. La pelle perfetta e bianchissima.


L’espressione del volto è misteriosa, assorta, sfuggente, concentrata, malinconica e fiera. Questo è il sentimento maggiormente espresso, la fierezza. Non si può non amare queste donne. Amarle in modo lontano, metafisico, estetico.
E' un sentimento strano e indefinibile, un'attrazione che la nostra lingua non riesce a definire esattamente. Una pulsione istintiva e inspiegabile: tri
stezza, dolore, felicità, fascino, sensualità... La serie si chiude con l'immagine di un albero. Un grande albero spoglio dal tronco quasi perfettamente simmetrico. Un albero morto? Oppure una creatura in attesa di rigenerarsi ancora? Il simbolo dell'evoluzione dell'esistenza? Ecco quale messaggio celano i volti di quelle donne... Solo loro conoscono il reale significato di quell'immagine.



Francesco Gallo

martedì 23 novembre 2010

VII


Settembre Ottobre Novembre
3 dei mesi crepuscolari
Maggiori nella natura del tempo.
E s'accostano ai morti
Sempre ricontano i volti
Rifugiati nel vento.
45 secondi non giungono
Un'attesa.
Non formano.
E le palpebre rimangono
Incollate ad una numerica sequenza.
Senza l'agone d'eros
Pavane ballate
Diritambi ed ossessi
Dioniso latente
S'abbreviano in stragi
Ne
Contano dello stregone
I morenti fluenti capelli.


Maurizio Calderoni


mercoledì 17 novembre 2010

Cardiopatia Tascabile


Ogni sei mesi andava fino a Milano, all'Ospedale Maggiore, per un controllo di routine al sistema cardiaco.
Un paio di infarti gli avevano assicurato la pensione anticipata e un'invalidità al cento per cento.
Appena risistemata la mente ed aver accettato la finitezza del suo vivere - senza elucubrazioni filosofiche di chissà quale portata, confidava nella saggezza di un Dio diffuso che dava risposte semplici, spoglie di dubbi o inclinazioni al cedere - aveva iniziato ad apprezzare tutto quel tempo libero, il cartellino giallo per entrare nelle ztl, i sorpassi di gran foga e anche a colpi di clacson degli autobus a metano del centro, le file riservate ai supermercati, l'affetto struggente e stringente dei cari, la sollevazione dagli obblighi coniugali con la petomane consorte.
Prese il treno Reggio Calabria- Milano alle diciannove e trentacinque del sedici febbraio. Cappello ben adeso alla calvizia parziale, valigetta con numero uno pigiami, tre mutande bianche a costine strette, due camiciole fuori lana interno cotone, tre paia di calzini grigi donatigli dal fratello finanziere, un pantalone di velluto grigio, spazzolino, dentifricio, caramelle alla liquirizia e rasoio elettrico. Nessun libro nè rivista, nè walkman o distrazione. Aveva buona bocca per parlare.
Il treno era vuoto come un utero in disuso. Una vecchia e una bambina di sei anni dormivano due scompartimenti più indietro.
Non lasciando mai la valigia percorse il treno da cima a fondo un paio di volte, finchè finalmente non incontrò il controllore.
Con solerzia tirò fuori il biglietto e sorridendo attaccò bottone: tempo, politica, massacri, tasse e razzismo.
Per trentasei minuti inchiodò il lavoratore a un finestrino sferragliante.
Mai temuta la solitudine, lui.
Il controllore riuscì con mossa arguta a divincolarsi ma solo dopo aver promesso che sarebbe passato a trovarlo prima di giungere a Napoli.
Compiaciuto da tale attenzione si allontanò appuntandosi il mento con pollice e indice.
Stava bene, stava proprio bene. Niente palpitazioni, sudori freddi, aritmie respiratorie, pensieri pessimistici, tremori vari, lacrime a colmare. Stava proprio bene, allegro, libero dalle mura domestiche, dal volontariato protratto della gestione familiare. Giovane, ecco. Leggero e giovane.
Andò in bagno, tirò fuori lo spazzolino e per quindici minuti raschiò bene via la placca. Denti da ragazzo, mica li aveva così suo padre a quarant'anni.
Finito si chiuse la porta alle spalle e andò nel suo scompartimento ad aspettare l'arrivo di un dialogante.
Sedutosi, con tutte le attenzioni del caso a non spiegazzare inutilmente il pantalone, chiuse gli occhi e si immaginò bracciante, poi pastore, poi commerciante, poi poliziotto e autista.
Immaginò molte mogli diverse, molte case diverse, un po' opache ma diverse.
Poi morì, così in trenta secondi. Infarto, il terzo e tre si sa è il numero perfetto.
Il controllore ferroviario neanche ci pensava a passare di fronte a quello scompartimento, con quell'uomo ciarliero che parlava troppo vicino all'interlocutore. Brav'uomo per carità si vedeva dall'abbigliamento curato, dallo sguardo pulito, ma lui adorava ubriacarsi di vino e ad annusarlo lo si capiva celermente.
Così rimase negli altri vagoni e solo dopo aver visto salire nuovi passeggeri a Napoli Centrale si decise ad affrontare il tredicesimo vagone.
L'uomo dormiva, la saliva scendeva copiosa dal lato sinistro della bocca, le mani abbandonate lungo i fianchi.
Avendogli già controllato il biglietto si guardò bene dal disturbarlo e, anzi, con un barlume di soddisfazione, considerò il fatto di buon auspicio per la continuazione del viaggio,  e passò allo scompartimento successivo dove una suora si stava sistemando una calza smagliata.
E adesso dritti fino a Milano.
Il treno vi entrò con tre minuti di anticipo alle nove e diciassette del diciassette febbraio.
Al frenare dell'eurostar il corpo di Erminio Barselli si precipitò in avanti e la saliva andò a creare una ruga lagunare sulla pelle nera della valigia.
I passeggeri scesero con i loro imbratti e carabattole, il personale ferroviario nicotinomane si fumò una sigaretta vicino alle porte di entrata.
La signora Amalia iniziò a disinfettare gli ambiente dal vagone numero uno.
Dopo un'ora trovò il corpo esanime del povero Erminio, così come la frenata lo aveva adagiato.
Fu un'affollarsi lento di persone e di ordini "Cerca nelle tasche" "E questo chi cazzo è" "Lo avranno ucciso? Forse è una spia" "Non toccatelo, chiamiamo i Nas" "Un medico" "Una portantina, un mortaio, una lettiga"
Dopo sei ore finalmente il corpo di Erminio arrivò all'Ospedale Maggiore di Milano, dove i medici che lo avevano in cura, constatarono che avevano perso un paziente e che la lista di attesa per i trapianti di miocardio si era accorciata.
Chiamarono la moglie e il figlio. Il figlio chiamò i parenti e gli amici del defunto.
In quattro, la moglie, il figlio e una coppia di amici, salirono su una punto GT color senape e imboccando la Salerno-Reggio Calabria, iniziarono a piangere e a mentire a se stessi sulle qualità e i pregi unici del congiunto.
Quando arrivarono all'ospedale, Erminio era circondato dai medici che lo stavano sottoponendo all'autopsia. Furono gentilmente invitati a recarsi all'obitorio che si trovava nel seminterrato.
La targhetta col nome era già pronta. Seduti e abbracciati videro arrivare la bara e il corpo rigido che giaceva composto e austero come un militare al giuramento.
I capelli grigi, le macchie marroni sulle mani non gli fecero pensare che non era lui. La morte lo aveva trasformato, la pelle già marciva, lo risucchiava negli zigomi, le ossa erano tenute a bada da un frack fuorimoda.
La moglie lo abbracciò coprendolo di calde lacrime, lo chiamò amore, Erminio mio, mio sposo, finchè una donna anziana con un cappellino a fiori non chiese loro chi fossero.
"La moglie sono" rispose con un fil di voce la fresca vedova.
"Non credo ne avesse due" stizzita replicò l'altra vedova.
E dalla porta un'altra bara entrò nella stanza.
Erminio immobile, sbuffò.


Maruska Nesti

lunedì 8 novembre 2010

Uscita di sicurezza

Oggi plastica a imbuto su una mattonella, piroetto confusa ad ogni

carezza di ruggine sul cielo. E' ormai tardi, per quella dolce composizione

di fiati di cui parlavi, c' è troppo disordine tra i buongiorno,i buonasera,

i come stai o cosa mangi. Oggi.

Dita di vetro trasparente salutano da un piccolo 
oblò verde campana,

gli occhi cenere di un vecchio mozzicone incastrato nell'erba.

Voglio il sax di domenica a colazione come una rivoltella sul fianco,

voglio offrirti i miei occhi  come un fazzoletto bianco sventolato

dal finestrino di una macchina in corsa e voglio che il cielo, con l'angolo

in alto a destra appena sollevato, ogni giorno, almeno una volta

mi suggerisca:    apri qui.


Stefania Rubeo

giovedì 4 novembre 2010

Geografie pittoriche

"Il Sud si vede nei colori, si sente nelle parole, è sempre più vivo, passionale, forte, drammatico."
Questo è quanto riporta Amelia durante una discussione sulla forza dei colori. Naturalmente per Sud intende tutti i paesi del Sud, perchè c'è sempre un paese a Sud di qualcosa.

Prendendo spunto da due artisti distanti fra loro, come Frida Kalho e Renato Guttuso, due figure del "Sud", ci accorgiamo come la forza dei colori caldi sia molto più sentita, anche se da una parte il rosso potrebbe essere il sangue e dall'altra la passione, se da un lato abbiamo la rappresentazione della tragedia personale e dall'altra il dramma della vita comune dell'uomo.

Come controbattuta ho voluto riportare anch'io un paio di artisti, Ma in questo caso nordici,  almeno riguardo alla mia posizione geografica: Edvard Munch e Francis Bacon, due esempi decisamente dissonanti tra loro per carattere intrinseco, ma che ci consentono una medesima analisi dei colori.
Dove per Munch il rosso diventa sangue e passione, come per Frida,  Bacon vede "carne da passeggio", dove le figure scombinate nell'animo si mischiano a quei fondi asettici che li circondano fino a soffocarli nella loro morsa.               


Per Amelia gli artisti del Sud hanno una personalità molto più decisa per verso, dei colori più densi, un cromatismo più caldo per certi aspetti, come si evince appunto dai rossi, dai gialli, o dalla profondità dei neri. Mentre risulterebbe più smorzato negli artisti nordici, anche se non perde sicuramente di forza espressiva, ma di "calore emanato".



IMG: opere di Guttuso, Kalho, Bacon, Munch

mercoledì 27 ottobre 2010

Binario

Intessendo le filigrane del sogno e  il desiderio immane di esserci, ciascuno con i propri esclusivi occhi, sopravvivendosi,  alcuni uomini hanno creato l’Arte.


L’arte è una notte, la Notte.

Qualcuno dirà: l’arte è luce, verità (particolare), è  bellezza.
Si, per gli altri forse, non per chi crea.
Per le tele intatte, le pellicole nuove, gli spazi vuoti e le pagine bianche non c’è luce che compensi il buio che l’ha cullate, temporeggiando alla ricerca dell’attimo che è, quando si compie, perfetto.
Lo spavento egoistico di terminare la gestazione, al buio.
Per un minuto o un’ora di sole non si rinnegano i giorni torvi e torbidi del provare ad espellere senza riuscirci.
 Tutto si accende di fronte alla creazione, all’ispirazione, all’espiazione cervellotica o ingenua del gesto che agisce.
Ma l’arte è  Notte, perché comprende il sole che cala, gli spauracchi di mezzanotte, la vista offuscata delle tre del mattino e l’albeggiare.
La notte è il grido fanciullo che non abbiamo ucciso, ma dilatato in un latrato di vespa affamata, nel deserto delle coscienze aggredite dai ragni del mutuo e del per sempre giovani.
La notte è il nostro chewingum da masticare lento mentre passeggiamo in esistenze scarne di ingiurie e complimenti, epiteti e rispetto, di visioni belle e volti innocenti .
La notte è il nostro modo di stare su giove ed avere sessantatre lune nonostante siamo su questa terra e ne abbiamo solo una.
La notte è l’attesa dell’orgasmo quando l’uomo o la donna di fronte increspano le ciglia come mille onde.
La notte è una verruca che fa male ad ogni passo.
L'arte sono le nostre ali di gabbiano, mentre viviamo da scimmie.


IMG: F. Gallo - L'attesa