In una bella intervista rilasciata qualche tempo fa a Christiane
Meyer-Thoss, Louise Bourgeois, scultrice, nata a Parigi nel 1911, ma residente
a New York dal 1938, invitata a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di
Venezia di quest’anno, ha dichiarato:
“La storia della mia carriera è stata
questa. Per molti anni, fortunatamente, i miei lavori non si sono venduti né
per profitto né per altre ragioni. Io ero molto produttiva, perché nessuno
cercava di copiare il mio alfabeto. Ne avevano sentito parlare, perché nel
corso degli anni qualche mostra l’avevo fatta, ma non avevo venduto. E in
America vendere equivale a avere successo. La mia immagine è rimasta tutta mia
e di questo sono molto riconoscente. Ho lavorato in pace per quarant’anni. La
produzione del mio lavoro non ha avuto niente a che vedere con la sua vendita.
Su di me il mercato continua a non avere alcun effetto, né in positivo né in
negativo”.
Prolifica, solitaria, controcorrente, in tutti questi anni Bourgeois
ha tenacemente fatto della sua ricerca artistica il luogo dichiarato di una
lucida autoanalisi. Convinta della necessità di non rimuovere, di non distrarsi
da sé e dell’utilità, ancor meglio dell’inevitabilità, di fare i conti con il
proprio passato, con i fantasmi dell’infanzia e della vicenda familiare oltre
che con le tracce da essi inscritte nel corpo, l’artista ha scelto la scultura
come mezzo di anamnesi e insieme di espressione.
Indifferente alle mode
culturali e alle tendenze artistiche che hanno via via dominato il nostro
secolo, eppure di esse assai avvertita, ha perseguito una sua strada che solo
verso la fine degli anni settanta ha incrociato il gusto e le nuove direttive
del mercato dell’arte. È così che, a settant’anni compiuti e senza mai essersi
allontanata da una sua privata e rigorosa linea di ricerca, Louise Bourgeois si
è trovata a rappresentare al livello più alto tanto il discorso estetico oggi
prevalente quanto i nuovi umori politici e sociali.*
La descrizione sopra, e le dichiarazioni delle sue interviste,
ci restituisco perfettamente la visione di quest'artista che ha fatto di tutta
la sua creazione l'analisi della sua vita, della sua memoria.
Quello che più mi
sorprende è come, nonostante la conoscenza del mondo artistico che poteva
circondarla in quegli anni, continua a perseguire la propria via senza sentire
la necessità di invertire o modificare i propri mezzi. Credo però che possiamo
cogliere il suo profondo e radicato concetto, in un suo intervento degli anni
novanta, dove asserisce con durezza l'impossibilità di insegnare a diventare
artisti,
“...Come lo si può insegnare?...Si può solo accettare o rifiutare
questo dono. Non è un mio potere, né è mia responsabilità, o tanto meno mia
intenzione, perseguire l'impossibile obiettivo di insegnare a qualcuno a
diventare artista”.
Un dono. Ecco come definisce la sua potenza nel creare.
Si può insegnare la tecnica, far fare molta pratica, condurre
qualcuno ad avere perfino una grande produzione, perché solo “l'opera può
insegnare qualcosa, non l'artista. Un buon numero di artisti sono molto
stupidi, sa” (in risposta ad una domanda di Francesco Bonami).
“...E' come provare ad aprire una porta con la chiave
sbagliata. Non c'è niente che non vada nella chiave e tanto meno nella porta. Ci
sono domande cui è troppo doloroso rispondere. E altre ancora cui è impossibile
rispondere”.
Rafael Vindigni
Fonti
* Maria
Nadotti, Prove d’ascolto. Incontri e
visioni, Edizioni dell’asino, Roma 2011
Artribune, anno IV, numero 17, 2014
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